La nudità del fatto

 

La smania di indagare la Phänomenologie affermandone la sacralità, orbene, definì i contorni di quel che della Phänomenologie sarebbe stato. Nietzsche, senza meno, ne ebbe oracolistici sentori.

Se, dai tempi della Phänomenologie des Geistes, al filosofare si attribuirono funzioni siffattamente laide da esser sconosciute persino alla pratica, ciò si deve a quel nucleo vincolante proprio dello stesso filosofare. Il soggetto che, come dice Hegel, «si trova in contraddizione tra la sua totalità, sistematizzata nella sua coscienza, e la determinatezza particolare che non ha scorrevolezza e non è ordinata e subordinata», non può che confidare esclusivamente nella richiamata determinatezza particolare. Il concetto–non–qualificato, spogliato delle sue fittizie infiorettature, costituisce il solo e infelice quoziente della nostra indagine qualificatoria. Osammo, insomma, una conclusione: ogni verità è tale in quanto indeterminata. Là dove l’atto della determinazione andò a buon fine, l’αλήθεια svaporò sperdendosi. Una volta per tutte. Se, come scrive Rensi, sulla scoperta dei Sofisti s’affrettò a calare lo spegnitoio socratico– platonico, tipico insigne esempio d’arte abilissima nel collocare i fatti nel bozzolo che li trasforma e nel soverchiare e nel mettere in silenzio la voce fastidiosa di chi li aveva presentati nudi, la nudità del fatto è quel che cercammo. Trattammo cogitationes ed explicationes come il nostro prodotto (fuori, come seme!), e così andava fatto. Avverto il peso del concetto gravare sulle mie passeggiate; ad ogni passo, incomputabili motivi per non farne più uno.