Copyright o copyleft?

Si sa che i diritti d’autore, più che diritti, si rivelano essere doveri d’autore. Non certo perché a quest’ultimo non vengano riconosciute prerogative (anche il serial killer le ha), ma per il semplice fatto che sia egli stesso a dover tutelarsi. Recentemente ho dato dimissioni da socio ordinario della SIAE, società che (quantomeno teoricamente) dovrebbe garantire all’autore che i diritti della sua opera (quali?) vengano rispettati (ma da chi?). Veniamo al punto: quali sarebbero i motivi per dimettermi da una società che intende tutelarmi? Non ve ne sarebbero, se solo mi tutelasse realmente. La SIAE, impietrita e fossilizzatasi nel passato, si rifiuta di aprire gli occhi di fronte al novus: internet. Subito pronta ad indossare i panni dell’eroina greca quando l’autore va tutelato in occasione di riproduzioni televisive o radiofoniche, essa impallidisce al cospetto della rete. Per dirla in breve: se (fatto già accaduto) un mio follower su Facebook, in malafede, dovesse scopiazzare i frammenti delle mie pubblicazioni editoriali, la SIAE non impugnerà le armi; dovrei essere io a indirizzare querele, pagare avvocati, girare per i tribunali (quando preferirei girare per il mondo o, più semplicemente, starmene in salotto con le mie pipe). Cara SIAE, dovresti proteggermi dal plagio e intendi farlo ignorando il luogo in cui, massimamente, il plagiante plagia? Ed io, plagiato, dovrei pure esser tuo socio? Anche il cane del mio vicino, a ben guardare, mi darebbe ragione. Verrebbe da dire, dunque, che siano finiti i tempi del copyright. Sarebbe più opportuno parlare di copy-left (e qui preciso che l’espressione mi è stata suggerita da un amico, Emanuele Crupi, cui va il mio ringraziamento per la sollecitazione). Un marxismo delle pagine e delle idee, in cui tutto è di tutti (anche quando non lo è). Vero è che quanto di più privato, ovvero la scrittura, cessa di essere tale nell’attimo stesso in cui l’autore decide di pubblicare l’opera. Non si parlerebbe altrimenti di “pubblicazione”: l’opera pubblicata è, per l’appunto, pubblica. In che termini lo sia, però, pare non chiaro. Non di tutto ciò che è pubblico, cari facebookiani (o facebookesi?), il pubblico può appropriarsi. L’opera scritta è pubblica solo in quanto pubblicamente reperibile, non in quanto offerta gratuitamente dall’autore. Tutto di tutti, nulla di nessuno: vale anche per i pensieri?