Ridenti e involute scimmie

La falsità, contro cui s’oppose l’idealismo, che ogni civiltà non fosse che i propri numeri, lascia oggi intendere più che negli anni di Spengler. La legge dell’intercambiabilità sociale: un essere vale l’altro, dunque non è più. Esso non vale. Errore fu considerare l’uomo dimorante nel mondo. Ciò fu scheletro della ragione storica. Nutrimmo una qualche avversione all’insufficienza; quel che contò fu restarne fuori. Il susseguirsi dei giorni priva di senso quel dinamismo contemplativo che ci ripulì dalla Critica. Lo stratagemma della Religionssoziologie è proprio la sua asocialità; la grandezza di una scienza sta nel tentativo di provare ciò che è avverso alla sua definizione. Schiacciati dal peso della definizione che ad essi spetta, non cedono forse anche i concetti? Che la burla di Frazer sia stata dannata occasione, non vi fu alcun dubbio; ma fu essa occasione proprio perché fu dannata. L’appartenenza ad un genere (quello umano) che si disse celeste, si traduce nel profilo di un genere che non si vuole più. . . inopportuno, come fu la macchina a vapore. Nessuna appartenenza di sentimento alle ridenti e involute scimmie: ne rimane un’appartenenza di fatto.

Copyright o copyleft?

Si sa che i diritti d’autore, più che diritti, si rivelano essere doveri d’autore. Non certo perché a quest’ultimo non vengano riconosciute prerogative (anche il serial killer le ha), ma per il semplice fatto che sia egli stesso a dover tutelarsi. Recentemente ho dato dimissioni da socio ordinario della SIAE, società che (quantomeno teoricamente) dovrebbe garantire all’autore che i diritti della sua opera (quali?) vengano rispettati (ma da chi?). Veniamo al punto: quali sarebbero i motivi per dimettermi da una società che intende tutelarmi? Non ve ne sarebbero, se solo mi tutelasse realmente. La SIAE, impietrita e fossilizzatasi nel passato, si rifiuta di aprire gli occhi di fronte al novus: internet. Subito pronta ad indossare i panni dell’eroina greca quando l’autore va tutelato in occasione di riproduzioni televisive o radiofoniche, essa impallidisce al cospetto della rete. Per dirla in breve: se (fatto già accaduto) un mio follower su Facebook, in malafede, dovesse scopiazzare i frammenti delle mie pubblicazioni editoriali, la SIAE non impugnerà le armi; dovrei essere io a indirizzare querele, pagare avvocati, girare per i tribunali (quando preferirei girare per il mondo o, più semplicemente, starmene in salotto con le mie pipe). Cara SIAE, dovresti proteggermi dal plagio e intendi farlo ignorando il luogo in cui, massimamente, il plagiante plagia? Ed io, plagiato, dovrei pure esser tuo socio? Anche il cane del mio vicino, a ben guardare, mi darebbe ragione. Verrebbe da dire, dunque, che siano finiti i tempi del copyright. Sarebbe più opportuno parlare di copy-left (e qui preciso che l’espressione mi è stata suggerita da un amico, Emanuele Crupi, cui va il mio ringraziamento per la sollecitazione). Un marxismo delle pagine e delle idee, in cui tutto è di tutti (anche quando non lo è). Vero è che quanto di più privato, ovvero la scrittura, cessa di essere tale nell’attimo stesso in cui l’autore decide di pubblicare l’opera. Non si parlerebbe altrimenti di “pubblicazione”: l’opera pubblicata è, per l’appunto, pubblica. In che termini lo sia, però, pare non chiaro. Non di tutto ciò che è pubblico, cari facebookiani (o facebookesi?), il pubblico può appropriarsi. L’opera scritta è pubblica solo in quanto pubblicamente reperibile, non in quanto offerta gratuitamente dall’autore. Tutto di tutti, nulla di nessuno: vale anche per i pensieri?

Non ne vale la penna

L’ingresso delle librerie è adornato dai prodotti migliori che esse hanno da offrire. Di certo non si tratta del corpus kantiano. Ma di questo sono ben lieto, in quanto (almeno per quanto riguarda le tre critiche) l’attenzione che Kant dedicò alla bellezza della parola è inversamente proporzionale a quella prestata alla maestosità del concetto.
Dicevamo, dunque, della merce migliore, quella in esposizione. Vi si trovano prevalentemente prontuari di ricette, da regalare a zie in pensione cui, magari, non riuscirà mai una ciambella col buco (ammesso che prenda voglia di provarci). Ai prontuari di ricette, sarebbero preferibili quelli dei farmaci; si potrebbe baloccare con i grecismi propri del lessico sanitario. Di largo consumo anche la manualistica per diventare bravi informatici, bravi falegnami, bravi architetti del fai-da-te, bravi sgozzatori seriali, brave mamme e bravi papà. Volumi delle tipologie: Come seppellire il proprio vicino, Come addomesticare Dracula, Come non iscriversi ai partiti politici.
Quanto ai reparti di manualistica (quella vera), i volumi vanno ordinati alla cassa. E, se cercate i classici, li troverete (sgualciti). Il tempo della saggistica è finito da un pezzo. Per non parlare della prassi, largamente diffusa tra gli studenti universitari, di fotocopiare i testi adottati dal proprio corso di laurea. A guadagnarci in questo caso, non è l’editore (che ha investito quattrini), né tantomeno l’autore (che ha investito se stesso). A trarne profitto è un terzo, un tale venuto dal nulla, nato da un giorno all’altro sotto il cavolo, e che alcun contributo ha mai offerto alla pubblicazione: il proprietario della copisteria.
Caro scrittore,

secondo lei, vale ancora la penna?

Le “branchie” del sapere

Mi passano per le mani, di tanto in tanto, riviste scientifiche d’ordine e argomento diversi rispetto alle mie primarie propensioni. Qualche tempo fa, gettai uno sguardo alle righe di un articolo sul Kuphus Polythalamia. Trattasi di un mollusco dall’aspetto che fa del gradevole la propria antitesi, assimilabile a forma di anguilla o a quella di un manganello sottoposto a deformazione, pari a quella de La persistencia de la memoria (non ne abbia a male Dalí).

Il mondo marino, dunque, dà grandi sorprese e non può che destare molto interesse in osservatori esterni come me, incapaci di levar le braccia in alto e nuotare. Non credo sia stato a causa di tali considerazioni, tuttavia, che un Professore ordinario (non appartenente alla mia sede, per fortuna), abbia parlato di “branchie del sapere”. Non fu per una e una volta sola, infatti, che il cattedratico ricorse ad una ‘i’ di troppo; elemento che ci fa escludere l’attenuante del lapsus linguae, che è di per sé già un alibi. Ad ogni modo, non sarebbe stato nemmeno il caso di invocare il dottor Freud, in quanto il relatore in questione, sin dall’inizio del suo esporre, non aveva dato prova di alte capacità retoriche.

Vi sono sommariamente due categorie di cattivi retori: quelli che non si servono di pause e quelli che le manifestano rumorosamente con mugolii e suoni vocalici. I primi fanno sì che la platea possa darsi all’inseguimento, i secondi la stordiscono con incerti “ehm”, “eeeeeh” e via discorrendo.

Quanto alla categoria dei valenti retori, dei domatori di pause, il loro numero è inferiore a quello dei domatori di leoni. Ce ne faremo una ragione (o forse no, dato che una delle conseguenze di tale difetto quantitativo è quella di sentire giornalisti parlare come baristi e professori conferenziare come giornalisti).

Giuliano La Prostata (più o meno)

Ci vien da dire che la storia sia fatta di fatti e che poco abbiano contato, in verità, i nomi dei protagonisti. A dimostrazione di ciò, basterebbe ricordare che dei facta dell’Urbe, tenendo per fermo che sic transit gloria mundi, ci restano comunque le vestigia; di Claudio, Augusto o Stilicone (solo per citare gli imperatori), non ci restano che nomi inoffensivi, a fatica ricordati da qualche studente, per inerzia citati da qualche professore.
Passeggiando nel cortile della mia sede universitaria, ascolto involontariamente le conversazioni di qualche studente. Così, una mattina, vengo a sapere che uno dei prodi protagonisti del IV secolo a.C. fu un tale “Giuliano La Prostata”. Questa sì che è apostasia. Ad esser annoverato tra gli imperatori, com’è noto, fu Giuliano, sì, detto “l’apostata”; ma non sappiamo se soffrisse di patologie proprie del basso corporeo, né credo che le tecniche di intervento in tali casi fossero a quel tempo particolarmente all’avanguardia.
Vero è che l’idiota, in mercato, è sempre a buon prezzo. E pare anche che, negli ultimi anni, siano stati in molti i ventri poco cauti nel generare. In ogni caso, il giovane in questione stava rispolverando le proprie conoscenze prima di sottoporsi ad esame. Non so, dunque non saprete, come sia finita. In quanto la fortuna non sembra affatto aiutare gli audaci, ipotizzeremo che anche in quest’occasione, come in altre, abbia preferito darsi all’inetto. In caso contrario, dovremo tornare a dire con Virgilio che Audentis fortuna iuvat; sta di fatto che, all’orizzonte, non v’è traccia di Turno.

Frammento 21

“Il bosco sacro di Nemi”, Turner

Un filosofare infestato dai suoi stessi rumori, come caste urbi nei processi di urbanizzazione che le coinvolgono, fu il προσκήνιον kantiano. Indagare d’ogni filosofia le quote come dell’amante il colore degli occhi. Troposfera del giudizio sintetico, esosfera della dialettica e cilestrino dell’iride: l’occhio di Atena su tutte le cose. Cercammo la verità per mezzo di essa stessa. Sì, Blanche, la verità è di chi ce l’ha già.

La lode al particolare, che fu spirito delle ricognizioni kantiane, segnò per sempre l’incapacità nella valutazione del tutto. L’oggetto della nostra contemplazione, Blanche, fu l’oggetto della rinnegazione settecentesca; ma quali lumi? Cola oro! E gli sputi dal cielo! La verità che ti cade sulla pelle, Blanche; come il catrame che, «sfregato sui denti e sulle gengive, li preserva in modo eccellente; che addolcisce l’alito e rende la voce forte e chiara». L’unico e sincero rovello della direzione kantiana, Blanche, fu sperimentare che una materializzazione della coscienza fosse possibile, ma ad una demonica condizione: che ciò avvenisse in silenzio. I Manuels de bon philosophe, assoggettati all’ordine del messaggio che essi intendono veicolare, andrebbero dati alle fiamme come non meritarono le streghe. Questi, Blanche, sono i tempi delle pagine bianche. E dei latrati. « Quod cito fit, cito perit ». Ma quale Eden. . .

Morte e oggettivazione

Dell’oggettivo, contrariamente a quanto si disse sistematicamente in merito, semplificammo la definizione: esso è ciò che s’impone. Il tutto fu tale da essere. Che le cose tendano, come dice Heidegger, ad essere piuttosto che a non essere, stride con la direzione mortifera che è propria d’ogni vivente. Che l’essere che vive sia un limitatamente essere? L’essere, è l’au-delà della totalità che vive. Dalla verità ci si aspettò quanto non avrebbe potuto venire che dai letti disfatti. Essi ospitarono del vivere il coito e della morte i vermi. La legge del necessario volle ultimo il primo luogo. Pochi gli occhi che fissarono l’a-fattualità del morire. La morte è il non–fatto di quel che non ad–viene. Essa è l’ab–venire dalla fattualità del vivere. Nell’essere che più non è, si contano peli, pensieri, pidocchi. La somma degli scarti trascende il corpo finanche quando esso è unicamente. La morte, nonché la «dilacerazione» (Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico) che ne rappresenta il solenne annuncio, sono seme di una grigia conoscenza. Da ciò che non è più, si trae, senz’altro passivamente, un’àncora, un appiglio. Alla decomposizione del corpo, fa eco un’inattesa composizione gnoseologica. Che sia questa una condizione dolorosa, non v’è alcun dubbio. Ma il nostro sia un dolore della ragione. Con ciò s’intenda non un dolore du cœur soggetto ad un processo di razionalizzazione, ma un dolore che nella ragione nasce e in essa si estingue. Il disfacimento di sé, in un estremo atto di estinzione, è dunque estrema condizione del processo conoscitivo. Nelle tombe, delle carni resta il puzzo; e restano i pensieri, che puzzano più delle carni. Deriva, da tale contingenza appestata, una fausta condizione di terzietà. «Sono fuori dalle cose come le cose sono fuori da me», si sarebbe detto un tempo; ma al pessimista ciò non basta. Che io sia fuori di me: questo rileva più del fatto che sia fuori dalle cose. Il morire, dunque, assolve il suo compito. «Vivo per qualcosa che non vive per me», dirò un giorno guardando le mie carte; ma da esse trasuderanno veleni. Privi di tutto, fuorché di volontà (che priva). Il morire segue il vivere nel tempo, ma lo precede nella volontà. La veglia del pessimista tiene ordine al vivere. Se l’esperienza indolore del conoscere è propria del morire, dal vegliare il pessimista trae tutto quel che non potrà trarre dalle carni asciutte del suo carcame. Il vivere è per lui una seconda scelta. Il morire insuffla nell’uomo quella soggettività di cui il vivere sedò ogni insicura pulsione. Se solo si potesse secondo metodo! Summae cogitationes in summa die. Si vide nell’oggettivazione la risoluzione d’ogni grattacapo metafisico, persino della morte e del dolore che ne è eco (Morte e pianto rituale nel mondo antico). Come si poté non riconoscere proprio nella stessa Idea di compimento, la quale è invece posta da De Martino a oggetto di risoluzione, la sola chiave risolutiva d’ogni male? Il vivere, l’atto degli atti, è l’atto nel quale l’uomo non osa. Non v’è ardire che nel non–atto della morte. Il morire succede al vivere nella sua incarnazione; nell’ars definitoria, peraltro, non v’è legge che non venga a trasporsi. L’explicatio mortis precede il vivente nel suo concetto. Regnò la logica. Anche tra i loculi.

Dell’elementarizzazione

Nel riassorbimento delle cervella, così come in quello universale, l’alleggerimento della sciagura cosmica che ci prese. Nell’elementarizzazione dell’universo, una via di scampo; nell’elemento, ierofanie. In summa die. Sana obbedienza all’antico istinto mortifero: il vivere. Il contenuto esiziale della perpetuazione biologica, peraltro, trova il suo manifestarsi non nel morire, bensì nello svilimento che di nulla è proprio, se non dello stesso vivere. Gioie dell’elettroshock. L’idea di infinito, al di là di ogni positivismo e di ogni inclinazione al calcolo, andava rinserrata nelle occulte anse della gnosis, come nessuno fece. I placidi atti di riduzione, sconosciuti proprio da chi avrebbe dovuto avvalersene, furono dunque l’unico ferale arnese nelle mani del filosofo; questi, però, lo adoperò per ridurre se stesso. Peculium castrense. « Emancipàti dalle leggi del divenire! ». . . Qualche conclusione fu certamente tratta. Mentre fuori accadeva di tutto, il concetto seguì un’unica traiettoria: un punto. Lì, zagare e rose spandono gli stessi profumi: quelli del trapasso. « Τί γὰρ ἂν καὶ ὕστερον αὐτῷ γένοιτο, ὃ μὴ νῦν ἐστι· ». No, l’eterno ha in sé qualcosa di ignobile. Non fa per noi; è una questione di igiene. Degli idealismi hegeliani (nonché delle contraffazioni empiristiche), residuano impulsi vendicativi ad carnem. Ci affidammo alle Mèditations cartèsiennes, ricercando più sudici piaceri: concetti in vitro. Metodi, dimostrazioni, trattati come liquidi organici nel Medioevo: sangue e sperma. La regola dell’enumerazione, la quale fu in Descartes principio e in noi necessità, non poté essere schivata come, a suo tempo, dallo stesso Descartes. Il filosofo, beninteso, è colui che esegue per conto di nessuno.

La nudità del fatto

 

La smania di indagare la Phänomenologie affermandone la sacralità, orbene, definì i contorni di quel che della Phänomenologie sarebbe stato. Nietzsche, senza meno, ne ebbe oracolistici sentori.

Se, dai tempi della Phänomenologie des Geistes, al filosofare si attribuirono funzioni siffattamente laide da esser sconosciute persino alla pratica, ciò si deve a quel nucleo vincolante proprio dello stesso filosofare. Il soggetto che, come dice Hegel, «si trova in contraddizione tra la sua totalità, sistematizzata nella sua coscienza, e la determinatezza particolare che non ha scorrevolezza e non è ordinata e subordinata», non può che confidare esclusivamente nella richiamata determinatezza particolare. Il concetto–non–qualificato, spogliato delle sue fittizie infiorettature, costituisce il solo e infelice quoziente della nostra indagine qualificatoria. Osammo, insomma, una conclusione: ogni verità è tale in quanto indeterminata. Là dove l’atto della determinazione andò a buon fine, l’αλήθεια svaporò sperdendosi. Una volta per tutte. Se, come scrive Rensi, sulla scoperta dei Sofisti s’affrettò a calare lo spegnitoio socratico– platonico, tipico insigne esempio d’arte abilissima nel collocare i fatti nel bozzolo che li trasforma e nel soverchiare e nel mettere in silenzio la voce fastidiosa di chi li aveva presentati nudi, la nudità del fatto è quel che cercammo. Trattammo cogitationes ed explicationes come il nostro prodotto (fuori, come seme!), e così andava fatto. Avverto il peso del concetto gravare sulle mie passeggiate; ad ogni passo, incomputabili motivi per non farne più uno.

“Blanche. Una lettera pessimistica”, in libreria!

Sarà possibile ordinare il volume presso qualsiasi libreria o tramite i siti web:

www.amazon.it

www.libreriauniversitaria.it

www.aracneeditrice.it

www.lafeltrinelli.it

www.libroco.it

Dalla prefazione di Sergio Cristaldi,

Professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Università di Catania.

Da tempo, la filosofia non presume più di essere il culmine conoscitivo, l’acme di un processo iniziato ai primordi con la metafora, il racconto, il mito e giunto infine alla maturità del concetto, alla luce senza ombre di una ragione felicemente dispiegata, nel suo logos pervasivo e sistematico. Lo spirito di sistema è avvertito come un vizio, all’organicità assestata si preferisce l’imbastitura, e il taglio teoretico riesce insoddisfacente. Il filosofo vede le sue astrazioni sbiadire, rattrappirsi; sbircia con insistenza inquadrature che gli appaiono più corpose e incisive, quelle della poesia, della narrativa, del teatro, e medita di appropriarsene. Non solo e non tanto spostandosi dall’uno all’altro binario, cimentandosi in una parallela produzione artistica; ma sperimentando intersezioni. C’è forse un unico modo di far filosofia? Quello obbediente a una purezza dell’impostazione, tenuta sempre sulla corda sillogistica, sul basso ostinato di generalità che si vogliono riassuntive e risultano sfocate? La contaminazione degli approcci è, invero, una strategia ricca di promesse per chi insegue un senso sfuggente, pronto a sgusciare dalla labile presa di un discorso a una dimensione. Se si provasse a braccare questo elusivo quid con reti non semplicemente concettuali?
In questo libro, Giuseppe Di Fini intende svolgere un filo speculativo, e coopta infatti i soci del club teoretico, Kant, Hegel, Schopenhauer, Kierkegaard, Heidegger, suoi compagni di strada e di avventura, insieme ad altri della medesima confraternita. Ma già il titolo, Blanche, sembra annunciare un romanzo. E l’andamento della pagina non ha certo il ritmo meccanico del teorema e della dimostrazione geometrica, del quaeritur e del respondeo, con tanto di note a piè di pagina ed eventuali rinvii a un’appendice di approfondimento. Di Fini incide sentenze, pratica il gioco di parole, accende immagini, soprattutto restituisce un’indagine nel suo farsi, sperimentando in chiave filosofica uno strumento proprio della narrativa novecentesca, il monologo interiore, felicemente importato sul terreno saggistico e rimodulato come monologo interiore di idee. Vero è che la sua è una lettera (per la precisione pessimistica, ma il nome non vale meno dell’epiteto), e si rivolge costantemente a un destinatario, Blanche, correggendo la tendenza monologante con un conato dialogico: la riflessione è alla presenza (ideale) di qualcuno, cui il flusso di coscienza e di ragionamento si indirizza, anche se lo raggiungerà in differita. Precedenti non mancano, proprio nell’ambito del filosofare. Ma si noti. La scrittura qui non devia mai verso una leggerezza brillante, un’amabilità di gradevoli conversari, mantiene una densità assoluta. È bene che lo sappiano subito quei destinatari di secondo grado che sono i lettori: dovranno sintonizzarsi su una lunghezza d’onda impegnativa, concessioni alla pigrizia, all’inerzia mentale qui non se ne fanno. Di Fini non è didascalico, semmai è maieutico, cosa ben diversa (e ben più produttiva).
Si capisce che l’enunciazione proceda a ondate, tornando ad aggredire la medesima battigia: i problemi sono quelli immediatamente posti, il sondaggio li riattinge in un assedio accanito. Circolarità? Non priva di ampliamenti, comunque, l’orizzonte si conferma e insieme si allarga. Di Fini innesca una spirale con cerchi via via più larghi attorno al medesimo centro o, se si preferisce, al medesimo rebus. Poiché l’impegno conoscitivo è sempre leale e sempre spiazzato, apprende il male di vivere (senza nasconderlo) e insegue ragioni ultime che si negano. Qualcuno pretende, invece, di possederle?
La metafisica – siamo stati già messi sull’avviso – è la più pura delle pornografie, ha promesso di denudare l’indenudabile, «per poi venirne fuori denudata». Nemmeno l’arte, tuttavia, risulta a veder bene una panacea; essa è «la sola camuffatrice di quella violenza che è propria del dolore», tanto che «i profumi di morte di un patiens, nelle pastosità di una tela, odorano come le labbra degli amanti». Distribuite imparzialmente le denunce contro l’una e l’altra mistificazione, Di Fini può tirare le somme di una impasse: «Cerco dunque seriamente il bello? Il bello ha sempre in sé qualcosa di osceno. Cerco dunque la verità: ma la verità è un nubiloso richiamo allo strazio che ne è figlio». La modalità modernissima di un sondaggio concettuale-metaforico – dove però la formula non pretende più di razionalizzare esaustivamente e l’immagine rinuncia a ogni chirurgia estetica – è all’insegna del disincanto. Sigla del mondo è un vortice imperscrutabile di menzogna e di offesa. Ma l’io stesso è ben lungi dal rappresentare un’alternativa, non ha quarti di nobiltà che lo rendano preferibile al mondo, e sortisce infatti un uguale disprezzo. «Se non c’è perversione in ciò, trovo purezza nell’odiarmi». Nessun sentore di artificio, di compiaciuta iperbole in una simile denigrazione di sé. Anzi, non c’è nemmeno denigrazione: non si tratta di imporre sui propri lineamenti un marchio d’infamia, ma di constatare come stanno le cose, e atteggiarsi di conseguenza. Semmai, esiste un’uscita sul retro, non per sfuggire a una pressione altrui, bensì per scampare dal giudizio più inflessibile, il proprio: «Trovare se stessi; e disfarsene quanto prima». Un’interpretazione temperata si proverebbe magari a spiegare questo imperativo ai sensi di una semplice dimenticanza di sé. E sarebbe, tutto sommato, una prospettiva terapeutica, anche se priva di reale guarigione. Viene in mente la constatazione di Georges Bernanos: «Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia è dimenticarsi. Ma se ogni orgoglio fosse morto in noi, la grazia delle grazie…». A questo punto, lo scrittore francese diverge, non è più parallelo e paragonabile, accedendo a un terreno di fede dove la considerazione della propria miseria non è più micidiale, poiché l’io giunge a percepirsi come un membro sofferente, e anch’esso amabile, di Gesù Cristo. Questo non può essere l’avvistamento di una nuda e cruda introspezione.
A Di Fini, alla sua verifica in termini umani, resta la torsione del contemptus sui in attenzione all’altro: un «esserci-con», un «esserci-per», secondo una declinazione dell’esistenzialismo in chiave di apertura intersoggettiva. Soluzione, s’intende, priva di inflessioni stentoree, tanto da essere consegnata in extremis, e con brevi cenni, quando il libro si sta ormai esaurendo. Una comunità umana gloriosamente compatta, e in marcia unanime verso traguardi in piena luce, o quanto meno “sostenibili”, è del tutto assente in questa discretissima conclusione. Verso la società, Di Fini non depone mai un sospetto affilato: «Il ventre sociale tiene stretti l’uno all’altro i dannati, tutti pronti a proteggersi vicendevolmente dalla verità: “È sufficiente che tu non veda!”». Se intersoggettività ha da esserci, dovrà allontanare i miraggi e le favole che facilmente intossicano l’homme social, ripiegato su un’offa di consolazioni in prima e in seconda serata. E in ogni caso, essa dovrà resistere all’omologazione, tutelando quella differenza che fa di ciascuno un’identità irriducibile, giustamente refrattaria a ogni standard. La cellula base resta il rapporto io-tu, in cui sussistono l’identità e l’alterità; fermo restando che l’alterità umana non coincide comunque con l’assoluto. Di Fini lascia imprecisato il profilo di Blanche: per non doverlo vistosamente intaccare?
Vi sono libri, è stato detto, che mordono e pungono. Eccone uno. Lucido verso i suoi stessi sbocchi. Il confederarsi fra uomini non è la salvezza, non è, insomma, l’equivalente secolare di Dio. Come inclinano di fatto a credere, magari senza rendersene conto, anche sedicenti uomini di religione. «Ci si chiede, per esempio, perché a parlare di Dio sia sempre chi con Dio non ha mai avuto a che fare. La ricerca mistica d’Occidente, non in silenzio, precipitò. Nel fracasso, lasciò posto a sterili sensi religiosi, riassumibili in regole di condotta e puerili canoni di solidarietà». Né la norma etica, né l’attivismo sentimentale – avverte Di Fini – attengono alla religiosità, alla sua natura autentica. Difficile dargli torto.

Sergio Cristaldi