Morte e oggettivazione

Dell’oggettivo, contrariamente a quanto si disse sistematicamente in merito, semplificammo la definizione: esso è ciò che s’impone. Il tutto fu tale da essere. Che le cose tendano, come dice Heidegger, ad essere piuttosto che a non essere, stride con la direzione mortifera che è propria d’ogni vivente. Che l’essere che vive sia un limitatamente essere? L’essere, è l’au-delà della totalità che vive. Dalla verità ci si aspettò quanto non avrebbe potuto venire che dai letti disfatti. Essi ospitarono del vivere il coito e della morte i vermi. La legge del necessario volle ultimo il primo luogo. Pochi gli occhi che fissarono l’a-fattualità del morire. La morte è il non–fatto di quel che non ad–viene. Essa è l’ab–venire dalla fattualità del vivere. Nell’essere che più non è, si contano peli, pensieri, pidocchi. La somma degli scarti trascende il corpo finanche quando esso è unicamente. La morte, nonché la «dilacerazione» (Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico) che ne rappresenta il solenne annuncio, sono seme di una grigia conoscenza. Da ciò che non è più, si trae, senz’altro passivamente, un’àncora, un appiglio. Alla decomposizione del corpo, fa eco un’inattesa composizione gnoseologica. Che sia questa una condizione dolorosa, non v’è alcun dubbio. Ma il nostro sia un dolore della ragione. Con ciò s’intenda non un dolore du cœur soggetto ad un processo di razionalizzazione, ma un dolore che nella ragione nasce e in essa si estingue. Il disfacimento di sé, in un estremo atto di estinzione, è dunque estrema condizione del processo conoscitivo. Nelle tombe, delle carni resta il puzzo; e restano i pensieri, che puzzano più delle carni. Deriva, da tale contingenza appestata, una fausta condizione di terzietà. «Sono fuori dalle cose come le cose sono fuori da me», si sarebbe detto un tempo; ma al pessimista ciò non basta. Che io sia fuori di me: questo rileva più del fatto che sia fuori dalle cose. Il morire, dunque, assolve il suo compito. «Vivo per qualcosa che non vive per me», dirò un giorno guardando le mie carte; ma da esse trasuderanno veleni. Privi di tutto, fuorché di volontà (che priva). Il morire segue il vivere nel tempo, ma lo precede nella volontà. La veglia del pessimista tiene ordine al vivere. Se l’esperienza indolore del conoscere è propria del morire, dal vegliare il pessimista trae tutto quel che non potrà trarre dalle carni asciutte del suo carcame. Il vivere è per lui una seconda scelta. Il morire insuffla nell’uomo quella soggettività di cui il vivere sedò ogni insicura pulsione. Se solo si potesse secondo metodo! Summae cogitationes in summa die. Si vide nell’oggettivazione la risoluzione d’ogni grattacapo metafisico, persino della morte e del dolore che ne è eco (Morte e pianto rituale nel mondo antico). Come si poté non riconoscere proprio nella stessa Idea di compimento, la quale è invece posta da De Martino a oggetto di risoluzione, la sola chiave risolutiva d’ogni male? Il vivere, l’atto degli atti, è l’atto nel quale l’uomo non osa. Non v’è ardire che nel non–atto della morte. Il morire succede al vivere nella sua incarnazione; nell’ars definitoria, peraltro, non v’è legge che non venga a trasporsi. L’explicatio mortis precede il vivente nel suo concetto. Regnò la logica. Anche tra i loculi.