Branduardi: arte e refe dello spirito nel «Kyrie Eleison».

Per lo spirito, tempo di penuria e di magrissime vacche. Nel secolo in cui persino la spiritualità sembra essersi ridimensionata e incasellata in certi suoi automatismi, Angelo Branduardi sembra costituire uno degli ultimi propugnacoli di quell’arte che conversa con il sacro, che approda alla mistica, che riferisce la bellezza al suo primo luogo: l’Assoluto. Nel «Kyrie Eleison» (il cui ascolto è stato reso disponibile gratuitamente per una settimana) si intreccia il refe di cui s’è detto. Dall’umo della Missa Luba, Branduardi e Luisa Zappa hanno cavato fuori una gemma nitentissima e dura.

«Ed un lume non basta

per portarmi la luce.

Tutto il pane non basta

per saziare la fame.

Tutta l’acqua non basta

per calmare la sete».

Nel fare dell’uomo v’è, insomma, cortezza. Carenza e miseria si abbracciano; e lo fanno in un abbraccio che è esiziale. Si leva un grido volto all’Assoluto. La risposta che perviene all’orante ricalca i toni della domanda, lasciandoli emergere come sondati. Il silenzio s’è rotto come le acque di madre. Peraltro la risposta è barbicata nella domanda. Se «tutto il fuoco non basta per scaldarti le mani», è perché il vero fuoco sta al di là del fuoco. «Oltre le ombre cammina», dunque.

Figlia

Figlia,

Figlia che corri al tuo prato, figlia che piangi sul letto. Figlia che mangi, figlia che corri, figlia che stringi. Figlia ogni volta che perdi. Figlia che dimezzi il sorriso. Figlia che abusi della rinuncia. Figlia che viaggi; e lo fai da ferma. Figlia quando ti volti. Figlia chiassosa, rumorosa. Figlia che nutri le stanze; di parole per le mie assonanze, di abbracci tremanti, di speranze. Figlia quando posi su rami spezzati. Figlia che giochi dietro al cespuglio; figlia ogni volta che tuoni e ti penti. Figlia quando ti abbandonerai al silenzio di chi verrà ad amarti. Figlia, forse avrai vent’anni e vestirai ancora il tuo bianco. Passeranno giorni in cui i tuoi occhi non vedrò, ché non li hai ancora. Eppure, un giorno, ti diranno: «Tuo padre t’amò tanto, anche quando non ti era ancora padre». Figlia affamata. Ti insegneranno gli amici, ti tradiranno feroci, verranno parole aguzze. Ti mentiranno alla soglia e, che Dio non voglia, proprio di notte aggrediranno i tuoi sogni. E tu non temere, nel sonno non tremare; ché, ad ogni tuo sussulto, un fetore di tabacchi orientali ti giungerà al fiuto. E, quando t’avranno punto, correrò a dirti che no, non è nulla. Ché ti sarò eterna culla. Ed eterno è il nome che non hai, che eppure sei. Guerriera dal cuore deluso, dall’occhio offeso dal crocchio. Dolcissime notti possa darti il tempo. 

σύμβολον, la riserva aurea

σύμβολον. σύν «insieme», βάλλω «gettare». Il simbolo congiunge i distinti. Esso è al di là di ogni atto, ponendosi invece come fatto nudo. Nel simbolo si incarna il vinciglio. In questa incarnazione, la medesimezza è superata persino presso se stessa. In questo «mettere insieme», si unisce non solo quel che rimarrebbe altrimenti diviso; a trovare unità è anche ciò che è indiviso nella sua regale potenza, eppure è osteggiato. Anulus. Un anello, un piccolo e stretto cerchio metallico. Si fissa e si radica nel quarto dito. Concresce con esso, appartenendogli ed avendolo in appartenenza. Si appropria di quel medesimo che più non è tale. Rutila alla luce, irrora i ricordi.

La destinazione del fiore

Émile Vernon, “Jeune femme aux roses”.

Un fiore non è mercanzia, un fiore non ha mercanzia. Non può essere liquidato, né si liquida. Un fiore può essere alienato, ma ciò può avvenire una volta sola. Viene ceduto senza negozio, tradisce ogni logica di mercificazione. Un fiore, insomma, non può essere ceduto; così come non può essere rifiutato. Nel baleno stesso in cui esso è andato, esso non può andare oltre. La meta destinatagli è l’unica a cui può pervenire, è l’ultima presso di cui può aulire. Suo attributo è, insomma, la destinazione. Un fiore è destinato, in quanto è portatore del proprio destino. Così come un fiore non può andare oltre la meta a cui è stato assegnato, esso non può nemmeno fare ritorno. Un fiore non torna indietro. Come già detto, eternizzato l’atto, non v’è il prima e non v’è il poi. Lasciate le sponde di chi , approda definitivamente a quelle di colui al quale è dato.

Folle è censire i fiori dati, sulla Terra. Folle stilare un elenco di quei petali felicemente appassiti, mitemente destinati e destinanti al sempre. E quel mortale che un fiore, col sorriso dell’amata falcato sul petto, inghiotte parole di granaglie eterne.

L’irrelatività del pensato

La nobiltà del concetto germoglia dalla sua dimenticanza. Nel vortice dell’oblio, come si direbbe a proposito di una pattumiera, finisce di tutto. Il nostro pensato restituisce la barbarie che ad esso appartiene. Nel postribolo a–spaziotemporale, reduce dal cultuale svernamento, il concetto è fatalmente riconosciuto (ἁναγνώρισις). Non v’è pessimismo che possa residuare (da una tale espressione di quella società che al pessimismo oppose la sua negazione). E qualche morto, restituito dalle acque della sacra storia. Alla risaputa (e non altrettanto temuta) relatività del mondo, l’irrelatività del proprio pensato si oppone. Tutto è uniforme: questo, invece, dall’homme social va temuto. La prerogativa del valente filosofo risiede, dunque, nel trarsi fuori dal relativo; per poi riaccedervi più relativo che mai. Il concetto si sottrae alle sentenze del tempo. . . L’inganno di cui ebbe a dire Schopenhauer (μαγεύω, μαγγανεύω. . . ), non fu che rappresentazione dello stesso caos schopenhaueriano. Il fatalismo sia sottratto alla sua dimensione esoterica, con lo stesso tremore dell’ultimo inchino: quello al capezzale. Da tale immagine derivò tale intuizione: che il nostro filosofare, delle immagini, debba essere privato.

Sociologia delle vongole: come il sapere sistematico si riduce a vuote nozioni

È chiaro ai più che i “saperi”, sin dalle prime categorizzazioni medioevali, han subìto svariate violenze in materia di classificazioni; è altrettanto chiaro che gli studiosi abbiano diffuso, consci o meno del danno incipiente, una patologia virale (potremmo denominarla sindrome dell’etichetta).  È bene sottolineare, prima di proseguire nella lettura di quest’articolo, che i portatori sani di tale patologia son più rari dei baristi che lavan le tazzine.

È più che sufficiente una fugace occhiata alle denominazioni degli insegnamenti erogati dalle Università, cari (più o meno) miei, per rendersi conto d’esser finiti in una neo-bolgia, sconosciuta da Dante e Virgilio: quella dei codici disciplinari. Parliamo delle sub-sezioni delle sezioni di ulteriori sezioni di categorie-madre, che al mercato un padre (non certo il mio, né quello di Branduardi) comprò. Fu così che il sapere unitario dei Greci, fondato su null’altro che la cosa prima e, dunque, conglobante ogni ramificazione epistemica e non, venne sventrato; prima dai sapientedi professione, poi da ministri che avrebbero dovuto ministrar minestrone (piuttosto che riforme) e disegni di carboncino e pastello (piuttosto che disegni di legge). Date un’occhiata, ma non più d’una, alla lista dei settori disciplinari del MIUR: http://www.miur.it/UserFiles/115.htm. Il sapere in lacerti, la conoscenza in brandelli: lo spezzatino i cui sapori, venga esso servito caldo o freddo, rimandano alla cena del giorno prima. Un giorno non lontano, cari (e non cari) miei, ci ritroveremo ad individuare nelle pagine del Miur una Sociologia delle vongole, in cui il “sapere” nozionistico e sistematico avrà sopravanzato docenti e studenti; un giorno non lontano, cari (e non cari) miei, passeremo il tempo a fissare mnemonicamente date e nomi, categorie e categorizzazioni, classi e tipologie, gettando in pattumiera la σοφία (e la bellezza).

Gli ultimi saranno i pini (ovvero, elogio del silenzio)

Da una prima premessa (ovvero che tacere è un’arte) e da una seconda (che l’artista è raro), segue che a tacere sono in pochi. Tre categorie di tacenti: 1) quelli che non hanno da dir nulla; 2) quelli che non dicono per timore di vomitare idiozie; 3) quelli che non dicono perché avrebbero troppo da dire.
Alla prima schiera, s’accede più facilmente di quanto si pensi. Si tratta, infatti, di una semplice variante del ciarlatano: la differenza, non indifferente ma nemmanco sostanziale, risiede nella via negationis tracciata dal soggetto.
Nei confronti della seconda categoria, ho sempre nutrito un certo favore. Trattasi dei pudici della parola. Realizzato di aver poco da dire, pudore e prudenza vengono a costituire le direttrici di questi miti militi. Rinunciato allo sfarzo e ripudiato lo sfoggio, han fatto del silenzio il proprio mandato.
La terza area, quella sapienti, pare abbia rinunciato alle proprie pretese dai tempi di Carneade. Ragion per cui, beninteso, agli appartenenti al ceppo è ormai comune il ricorso allo sproloquio.
L’auspicio di chi scrive, caro lettore, è che possa fondarsi un’etica della parola. Etica che si appresti a dare il verbo ai muti e a toglierla, se necessario, ai parlanti. Ma gli auspici, come del resto è noto, son roba etrusca. Chi è in cerca di silenzio, faccia sodalizio con un pino.

Apoteosi della fine

Si inizi da dove non partì mai nessuno: dalla fine. E si finisca in fretta. L’apoteosi della fine non è semplicemente un volere (che, come dicemmo, va sempre tra l’altro evitato); essa è il volere, l’unico volere  contra scientiam. Far proprio l’esercito nemico; poi, un sospiro di pace. Il pensato fu consegnato ai lamenti, come va fatto con i cadaveri. Qui si crede in una filosofia per garantire a se stessi che non ve ne siano altre. Perché sia così, il filosofo non deve ricevere investitura alcuna: le muse restino al loro posto ed egli al proprio. Non venne chiamato: il filosofo si chiama da sé. Così come anche le sue creature concettuali si adagiano sui pensieri abituali e vengono fuori, come se qualcuno le avesse mai richiamate al suo ventre. Dato che chiunque parli di qualcosa, per un momento, se ne appropria, il filosofo possiede ciò di cui blatera; conosce i mali perché li ha accolti in sé, per anatomizzarli meglio. Ciò che è in suo possesso, occorre osservare, comprende peraltro le damnationes de mundo e i pericoli che esse determinano. Ci ritroviamo come benevoli sciacalli, tra le macerie, in cerca di rimasugli di ciò che fu detto un tempo. Agguantare quel poco che rimane di quel poco che vi era di buono; ignorare il resto e rendersi conto di quanto non fu detto. La verginità del nostro concetto è data dal rifiuto del divieto che ad esso si pone. Ma il dolore del filosofo è un dolore della ragione; esso non è nessun frutto di abnegazioni, ma figlio di un qualche desiderio.

Olio al serio (ovvero, brevi considerazioni sull’umorismo)

Tanto s’è scritto e tanto si scriverà sull’umorismo. Non toccherà a noi districare certe matasse, in quanto: 1) non è nostro imperativo; 2) non ci è stato chiesto; 3) ho una forte emicrania. Occorre però, come in ogni caso simile, evitare facili conciliazioni tra gli opposti, preferendo loro, quando necessario, la proclamazione delle più insidiose divergenze tra modelli. Stiamo parlando dell’opposizione tra due homines: la scimmia dal facile riso e quella dal muso di trota.

Per eccesso di determinazione, avendo subìto e assorbito certe smanie classificatorie proprie di Ugo di San Vittore (che di cataloghi e suddivisioni fece l’oggetto del proprio mestiere), potrei essere portato ad arricchire la trattazione di ulteriori sottocategorie. Ci limiteremo peraltro ai due citati modelli, lasciando le ramificazioni al lettore, che in tale occasione si riscoprirà taglialegna.

Dovrebbe ormai essere chiaro ai più il tramonto dell’antico monito, rivolto agli imbelli più che agli ottimisti: risus abundat in ore stultorum. Il volto che non ghigna, ad oggi, è volto che generalmente non ha di fronte alcun altro. Semplicemente  perché lasciato da solo. E le motivazioni son chiare: il ghigno assicura e rassicura. Il mondo ride e che tu non lo faccia ti rende sospetto. (Andrebbe soggiunto, per par condicio, che il nemico del ghigno è in realtà il sospettoso per eccellenza). Olio bollente al serio, dunque. Alla maniera dei Giudei coi Romani. In alternativa, vi son sempre le Gemonie.