Sotto il segno del fiore

Émile Vernon, “Ragazza con i papaveri”.

Qualunque umano che abbia mai calpestato la terra, sulla Terra, ha almeno una volta colto un fiore. Per meglio dire, almeno una volta ne avrà colto uno. Qualcuno direbbe (e l’avrò detto anch’io): «Il fiore sta nel campo, nel campo va lasciato». Andrebbe lasciato alla terra ciò che alla terra appartiene, in altre parole. Eppure la Terra richiama. Ella, dea, intramontabile, richiama alle sue leggi. E legge vuole, talvolta, che un fiore vada colto.

«Sia strappato dal ramo il frutto». Qui la lex non è scripta (e forse è meglio così). Eppure parla chiaramente, più del verbo inchiostrato. Qui è il sussulto del ventre, il solco profondo degli intestini, la fame atavica che è del mondo. Chi coglie un frutto, ebbene sì, lo coglie per succhiarne i suoi succhi. Ma il fiore?

Chi coglie un fiore, a ben guardare, non se ne nutre. Lo si pone sul letto degli amanti. Lo si consacra a un nume o ad una donna, il che è un po’ lo stesso. Lo si accosta al naso: olezzi lontani, amori, delizie. Il fiore è colto per. Anche qui vige una lex che scripta non è. A differenza di quel che accade al frutto, però, qui, chi coglie non coglie per sé

Oserei dire che, talvolta, un fiore si coglie da sé. E ciò avviene, miracolosamente, sine flore. Il fiore non c’è, ma esso è da sempre, come quelle «cose che non avvennero mai, ma sono sempre» (Saturnino Secondo Salustio, Degli dèi e del mondo). Tra le cose che sono sempre, che sono da sempre, il fiore ‘colto per’ eternizza l’atto, lo educa al sempre, lo addestra alla rinuncia nei confronti del prima e del dopo

Branduardi: arte e refe dello spirito nel «Kyrie Eleison».

Per lo spirito, tempo di penuria e di magrissime vacche. Nel secolo in cui persino la spiritualità sembra essersi ridimensionata e incasellata in certi suoi automatismi, Angelo Branduardi sembra costituire uno degli ultimi propugnacoli di quell’arte che conversa con il sacro, che approda alla mistica, che riferisce la bellezza al suo primo luogo: l’Assoluto. Nel «Kyrie Eleison» (il cui ascolto è stato reso disponibile gratuitamente per una settimana) si intreccia il refe di cui s’è detto. Dall’umo della Missa Luba, Branduardi e Luisa Zappa hanno cavato fuori una gemma nitentissima e dura.

«Ed un lume non basta

per portarmi la luce.

Tutto il pane non basta

per saziare la fame.

Tutta l’acqua non basta

per calmare la sete».

Nel fare dell’uomo v’è, insomma, cortezza. Carenza e miseria si abbracciano; e lo fanno in un abbraccio che è esiziale. Si leva un grido volto all’Assoluto. La risposta che perviene all’orante ricalca i toni della domanda, lasciandoli emergere come sondati. Il silenzio s’è rotto come le acque di madre. Peraltro la risposta è barbicata nella domanda. Se «tutto il fuoco non basta per scaldarti le mani», è perché il vero fuoco sta al di là del fuoco. «Oltre le ombre cammina», dunque.

Figlia

Figlia,

Figlia che corri al tuo prato, figlia che piangi sul letto. Figlia che mangi, figlia che corri, figlia che stringi. Figlia ogni volta che perdi. Figlia che dimezzi il sorriso. Figlia che abusi della rinuncia. Figlia che viaggi; e lo fai da ferma. Figlia quando ti volti. Figlia chiassosa, rumorosa. Figlia che nutri le stanze; di parole per le mie assonanze, di abbracci tremanti, di speranze. Figlia quando posi su rami spezzati. Figlia che giochi dietro al cespuglio; figlia ogni volta che tuoni e ti penti. Figlia quando ti abbandonerai al silenzio di chi verrà ad amarti. Figlia, forse avrai vent’anni e vestirai ancora il tuo bianco. Passeranno giorni in cui i tuoi occhi non vedrò, ché non li hai ancora. Eppure, un giorno, ti diranno: «Tuo padre t’amò tanto, anche quando non ti era ancora padre». Figlia affamata. Ti insegneranno gli amici, ti tradiranno feroci, verranno parole aguzze. Ti mentiranno alla soglia e, che Dio non voglia, proprio di notte aggrediranno i tuoi sogni. E tu non temere, nel sonno non tremare; ché, ad ogni tuo sussulto, un fetore di tabacchi orientali ti giungerà al fiuto. E, quando t’avranno punto, correrò a dirti che no, non è nulla. Ché ti sarò eterna culla. Ed eterno è il nome che non hai, che eppure sei. Guerriera dal cuore deluso, dall’occhio offeso dal crocchio. Dolcissime notti possa darti il tempo. 

σύμβολον, la riserva aurea

σύμβολον. σύν «insieme», βάλλω «gettare». Il simbolo congiunge i distinti. Esso è al di là di ogni atto, ponendosi invece come fatto nudo. Nel simbolo si incarna il vinciglio. In questa incarnazione, la medesimezza è superata persino presso se stessa. In questo «mettere insieme», si unisce non solo quel che rimarrebbe altrimenti diviso; a trovare unità è anche ciò che è indiviso nella sua regale potenza, eppure è osteggiato. Anulus. Un anello, un piccolo e stretto cerchio metallico. Si fissa e si radica nel quarto dito. Concresce con esso, appartenendogli ed avendolo in appartenenza. Si appropria di quel medesimo che più non è tale. Rutila alla luce, irrora i ricordi.

Elena, la notte, l’incendio / parte I

εἴδωλον. Un’immagine documenta il sottrarsi. A Paride, ad Alessandro, Elena sfugge. E diremo di più: sfugge anche l’immagine stessa, il fantasma. Evanescente per sua natura, l’immagine non si dà. Elena è una notte frangente. È un incendio redento. Si sottrae Elena, lo fa la sua immagine; lo fa anche la sua idea, col passo silente. Non ci è dato sapere cosa e chi sia effettivamente partito con quelle navi. Elena è dove non compare. Fu così che a Troia si combatté per un’immagine; ma si combatté a lungo, si combatté davvero.

Il sangue, le ferraglie degli armamenti, i sussulti degli armati, le lunghe attese delle mogli, quelle infinite delle vedove, sembrano dare consistenza persino all’assenza. Per un gioco paradossale, l’assente presenzia, in sua assenza, alla sua assenza. Elena attraversa il mare senza attraversarlo. Elena è il qui, è l’altrove; è il certo, è il forse, è il tacito. Elena è lo scoppio, è il tuono.

La destinazione del fiore

Émile Vernon, “Jeune femme aux roses”.

Un fiore non è mercanzia, un fiore non ha mercanzia. Non può essere liquidato, né si liquida. Un fiore può essere alienato, ma ciò può avvenire una volta sola. Viene ceduto senza negozio, tradisce ogni logica di mercificazione. Un fiore, insomma, non può essere ceduto; così come non può essere rifiutato. Nel baleno stesso in cui esso è andato, esso non può andare oltre. La meta destinatagli è l’unica a cui può pervenire, è l’ultima presso di cui può aulire. Suo attributo è, insomma, la destinazione. Un fiore è destinato, in quanto è portatore del proprio destino. Così come un fiore non può andare oltre la meta a cui è stato assegnato, esso non può nemmeno fare ritorno. Un fiore non torna indietro. Come già detto, eternizzato l’atto, non v’è il prima e non v’è il poi. Lasciate le sponde di chi , approda definitivamente a quelle di colui al quale è dato.

Folle è censire i fiori dati, sulla Terra. Folle stilare un elenco di quei petali felicemente appassiti, mitemente destinati e destinanti al sempre. E quel mortale che un fiore, col sorriso dell’amata falcato sul petto, inghiotte parole di granaglie eterne.

Poche righe sui morenti e sulla vita che non muore: riflessioni su “L’inganno”, di Thomas Mann

Il regime naturale insegna a sfiorire. Premessa alla morte, l’imperativo imposto ad ogni lilium speciosus è quello d’arricciarsi sine die. Contravvenendo alla prassi che sia il generato a veder morire il generante, la natura di cui si predicò esser madre, l’uno in coda all’altro, accompagna i figli immondi all’altro mondo. E pare farlo con grazia rinascimentale, spurgandone i sudori ad arte. Sfiorisce anche Rosalia von Tummler, ne L’inganno di Thomas Mann.

Rosalia von Tummler, «figlia di maggio», malata della sua primavera, ne morì; fu il ventre che dà la vita, assieme alle sue poltiglie sanguigne, a darle la morte. Il suo ventre stillava le proprie resine: perdeva sangue umano, come accade ad una giovinetta. Si ricredette pronta ad abbracciare corpi di amanti, a lasciarsi alitare addosso le antiche voglie. Eppure quei grumi sanguigni non furono causati dal miracoloso ritorno del mestruo: un tumore abitava il corpo della von Tummler. «Le raffinate combinazioni della natura!», verrebbe da dire. E il vecchio lo sa. Solo il vecchio. Egli conferisce una certa dignità all’arricciarsi; e lo fa guardandosi le mani, almeno una volta assassine. Costui mantiene un aperto interesse al morire, come il lattante ai colori che la vita pare offrirgli. E come il lattante s’ammala compulsivamente di vita, egli fa lo stesso; ma lo fa come può farlo un morente che sa d’essere morente. L’avidità del lattante s’arriccia, dunque. Solo con meno grazia.


L’irrelatività del pensato

La nobiltà del concetto germoglia dalla sua dimenticanza. Nel vortice dell’oblio, come si direbbe a proposito di una pattumiera, finisce di tutto. Il nostro pensato restituisce la barbarie che ad esso appartiene. Nel postribolo a–spaziotemporale, reduce dal cultuale svernamento, il concetto è fatalmente riconosciuto (ἁναγνώρισις). Non v’è pessimismo che possa residuare (da una tale espressione di quella società che al pessimismo oppose la sua negazione). E qualche morto, restituito dalle acque della sacra storia. Alla risaputa (e non altrettanto temuta) relatività del mondo, l’irrelatività del proprio pensato si oppone. Tutto è uniforme: questo, invece, dall’homme social va temuto. La prerogativa del valente filosofo risiede, dunque, nel trarsi fuori dal relativo; per poi riaccedervi più relativo che mai. Il concetto si sottrae alle sentenze del tempo. . . L’inganno di cui ebbe a dire Schopenhauer (μαγεύω, μαγγανεύω. . . ), non fu che rappresentazione dello stesso caos schopenhaueriano. Il fatalismo sia sottratto alla sua dimensione esoterica, con lo stesso tremore dell’ultimo inchino: quello al capezzale. Da tale immagine derivò tale intuizione: che il nostro filosofare, delle immagini, debba essere privato.

Bergson: il riso come dimensione dell’uomo

Nel regno delle definizioni, il filosofo sguazza. Eppure questo gioco perverso, per qualche ragione, lascia l’amaro in bocca; e lo lascia inducendoci ad assaporare l’insufficienza del de-finire. La prima intuizione di Bergson, addentrandosi nei suoi studi sul riso, è proprio questa: il primo requisito è di natura apofatica, ovvero la rinuncia alla definizione.

Ciò detto, la seconda grande intuizione risiede nel fondamento del riso. È l’umano a ridere e a far ridere. Se si riderà d’un cappello, scrive Bergson, si riderà delle forme bizzarre che l’uomo gli ha conferito, non di certo della componente materiale che gli è propria. L’uomo sollecita il riso, ne è l’origine, ne costituisce la destinazione. L’immagine dell’uomo che cade e quella dei passanti che ne ridono, portataci alla mente da Bergson nel secondo paragrafo, ci rammenta Menandro e ci lascia un retrogusto aristotelico: si ride di ciò che, per certi versi, farebbe piangere. La dimensione teatrale, qui, occupa chiaramente un ruolo di primo piano: quel che avviene sulla scena, almeno per un istante, non accade in cavea.

Il riso importa la teatralità dalla scena, assegnandole uno spazio nel quotidiano. Si riderà d’un corpo, d’una parola, d’un fatto; ma lo spazio in cui ciò avverrà sarà sempre e comunque lo spazio dell’uomo. Animale che ride e animale che fa ridere – scrive Bergson. La dimensione del comico non solo non può prescindere dall’uomo in quanto fruitore, ma anche in quanto oggetto del riso. Quando si ride, si ride di un uomo; quando non si ride di un uomo, si ride dell’umano.


Lacerti di una libertà possibile in Oswald Spengler (filosofo anti-accademico dimenticato dalle accademie)

«In Germania era stato messo al bando come pessimista e reazionario (nel senso in cui i nazisti usavano queste parole), all’estero fu considerato uno dei corresponsabili ideologici della ricaduta nella barbarie». Oswald Spengler, pensatore di certo più interessante di chi lo esclude dai manuali di storia della filosofia, fu per tali (e per altre) ragioni confinato. Meglio nutrirsi della consueta minestrina servita nelle università, italiane e non; o, almeno, così crede chi, più o meno mediocremente, nelle università, insegna.

La citazione riportata come incipit è tratta da un brevissimo saggio di T. Adorno, presente nella raccolta Prismi (1955): Spengler dopo il tramonto (1938). È a partire da questo saggio che si potrebbero tracciare alcune prime linee del pensiero di Spengler (non avendo comunque il mio articolo l’intenzione di illustrare il contenuto de Il tramonto dell’Occidente, alla cui lettura rimando per eventuali approfondimenti). L’intenzione non è nemmanco quella di tracciare un profilo di Oswald Spengler. La nostra prima domanda è: perché un filosofo viene dimenticato? La risposta, come vedremo, sarà: perché non insegnava presso alcuna università. Il saggio di Adorno ci fornisce subito qualche strumento: «Heidegger nobilitava la morte da Spengler decretata senza riguardi personali e prometteva di trasformarne il concetto in un segreto dell’azienda accademica». L’università sarebbe insomma custode, ancor prima che del sapere, del concetto. Tutto ciò solo sulla carta, s’intende. Un’istituzione d’alto “sapere” che tende a dimenticare quei “sapienti” che non ne fecero parte, a ben guardare, sembrerebbe tutt’altro che incline all’alto.

Che piaccia o no, le intuizioni di Spengler non possono che destare interesse nello studioso non miope. Adorno evidenziò con acume le sorprendenti corrispondenze tra le «prognosi specifiche» tracciate dal teorico del tramonto e la fattispecie concreta, ovvero quella della storia a questi posteriore. I limiti della democrazia (individuati non più nella mera tendenza alla degenerazione in regime, ma in una vera e propria immanenza dell’elemento de-genere nella dimensione democratica) si legano e si sovrappongono a quelli della libertà-come-principio democratico. La stessa libertà di stampa, una volta postulata, viene ben presto irrigidita dalla democrazia che l’ha posta: il cittadino libero (l’uomo libero, per meglio dire) dovrà liberarsi dalla stampa, per non restarne soffocato. Quando tale passo non si compie, la libertà-come-principio democratico fallisce. L’informazione è seriale, se tale può divenire persino l’arte. Ma c’è di più: essa de-forma tanto quanto in-forma. Ad essere de-formata è la stessa forma del cittadino, il che è inevitabile.

Ci rimane l’uomo, al quale si prospetta una libertà possibile, letta come possibilità kierkegaardiana: egli può esser libero, tra infinite possibilità. Sarà libero, aggiungeremmo, se rinnegherà della libertà ogni principio postulato dal sistema che lo ospita; sarà libero, in altre parole, quando cesserà di professare una libertà derivata. Dalla libertà come principio, che lasciamo al cittadino, l’uomo accede alla libertà come posizione. Il cittadino è posto, tanto quanto l’uomo si pone da sé.