Le “branchie” del sapere

Mi passano per le mani, di tanto in tanto, riviste scientifiche d’ordine e argomento diversi rispetto alle mie primarie propensioni. Qualche tempo fa, gettai uno sguardo alle righe di un articolo sul Kuphus Polythalamia. Trattasi di un mollusco dall’aspetto che fa del gradevole la propria antitesi, assimilabile a forma di anguilla o a quella di un manganello sottoposto a deformazione, pari a quella de La persistencia de la memoria (non ne abbia a male Dalí).

Il mondo marino, dunque, dà grandi sorprese e non può che destare molto interesse in osservatori esterni come me, incapaci di levar le braccia in alto e nuotare. Non credo sia stato a causa di tali considerazioni, tuttavia, che un Professore ordinario (non appartenente alla mia sede, per fortuna), abbia parlato di “branchie del sapere”. Non fu per una e una volta sola, infatti, che il cattedratico ricorse ad una ‘i’ di troppo; elemento che ci fa escludere l’attenuante del lapsus linguae, che è di per sé già un alibi. Ad ogni modo, non sarebbe stato nemmeno il caso di invocare il dottor Freud, in quanto il relatore in questione, sin dall’inizio del suo esporre, non aveva dato prova di alte capacità retoriche.

Vi sono sommariamente due categorie di cattivi retori: quelli che non si servono di pause e quelli che le manifestano rumorosamente con mugolii e suoni vocalici. I primi fanno sì che la platea possa darsi all’inseguimento, i secondi la stordiscono con incerti “ehm”, “eeeeeh” e via discorrendo.

Quanto alla categoria dei valenti retori, dei domatori di pause, il loro numero è inferiore a quello dei domatori di leoni. Ce ne faremo una ragione (o forse no, dato che una delle conseguenze di tale difetto quantitativo è quella di sentire giornalisti parlare come baristi e professori conferenziare come giornalisti).