Non ne vale la penna

L’ingresso delle librerie è adornato dai prodotti migliori che esse hanno da offrire. Di certo non si tratta del corpus kantiano. Ma di questo sono ben lieto, in quanto (almeno per quanto riguarda le tre critiche) l’attenzione che Kant dedicò alla bellezza della parola è inversamente proporzionale a quella prestata alla maestosità del concetto.
Dicevamo, dunque, della merce migliore, quella in esposizione. Vi si trovano prevalentemente prontuari di ricette, da regalare a zie in pensione cui, magari, non riuscirà mai una ciambella col buco (ammesso che prenda voglia di provarci). Ai prontuari di ricette, sarebbero preferibili quelli dei farmaci; si potrebbe baloccare con i grecismi propri del lessico sanitario. Di largo consumo anche la manualistica per diventare bravi informatici, bravi falegnami, bravi architetti del fai-da-te, bravi sgozzatori seriali, brave mamme e bravi papà. Volumi delle tipologie: Come seppellire il proprio vicino, Come addomesticare Dracula, Come non iscriversi ai partiti politici.
Quanto ai reparti di manualistica (quella vera), i volumi vanno ordinati alla cassa. E, se cercate i classici, li troverete (sgualciti). Il tempo della saggistica è finito da un pezzo. Per non parlare della prassi, largamente diffusa tra gli studenti universitari, di fotocopiare i testi adottati dal proprio corso di laurea. A guadagnarci in questo caso, non è l’editore (che ha investito quattrini), né tantomeno l’autore (che ha investito se stesso). A trarne profitto è un terzo, un tale venuto dal nulla, nato da un giorno all’altro sotto il cavolo, e che alcun contributo ha mai offerto alla pubblicazione: il proprietario della copisteria.
Caro scrittore,

secondo lei, vale ancora la penna?