Apoteosi della fine

Si inizi da dove non partì mai nessuno: dalla fine. E si finisca in fretta. L’apoteosi della fine non è semplicemente un volere (che, come dicemmo, va sempre tra l’altro evitato); essa è il volere, l’unico volere  contra scientiam. Far proprio l’esercito nemico; poi, un sospiro di pace. Il pensato fu consegnato ai lamenti, come va fatto con i cadaveri. Qui si crede in una filosofia per garantire a se stessi che non ve ne siano altre. Perché sia così, il filosofo non deve ricevere investitura alcuna: le muse restino al loro posto ed egli al proprio. Non venne chiamato: il filosofo si chiama da sé. Così come anche le sue creature concettuali si adagiano sui pensieri abituali e vengono fuori, come se qualcuno le avesse mai richiamate al suo ventre. Dato che chiunque parli di qualcosa, per un momento, se ne appropria, il filosofo possiede ciò di cui blatera; conosce i mali perché li ha accolti in sé, per anatomizzarli meglio. Ciò che è in suo possesso, occorre osservare, comprende peraltro le damnationes de mundo e i pericoli che esse determinano. Ci ritroviamo come benevoli sciacalli, tra le macerie, in cerca di rimasugli di ciò che fu detto un tempo. Agguantare quel poco che rimane di quel poco che vi era di buono; ignorare il resto e rendersi conto di quanto non fu detto. La verginità del nostro concetto è data dal rifiuto del divieto che ad esso si pone. Ma il dolore del filosofo è un dolore della ragione; esso non è nessun frutto di abnegazioni, ma figlio di un qualche desiderio.